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Il Triveneto è stato teatro delle gesta di molti sardi che non si arresero al fascismo e persero o rischiarono la propria vita per la Liberazione del Paese.
Tanti si resero protagonisti di operazioni importanti e assunsero ruoli di rilievo nelle formazioni partigiane, alcuni nel dopoguerra ottennero importanti riconoscimenti dal governo italiano.
Dopo esserci soffermati sulle biografie dei caduti, chiudiamo il capitolo sul Triveneto ricordando alcuni partigiani che sopravvissero al conflitto e le cui storie, per un motivo o per un altro, hanno avuto un’ampia eco.
.- Bulla Salvatore nacque a Bultei (SS) il 17 novembre 1920. Nome di battaglia “Moro”.
Contadino prima della chiamata alle armi, come tanti soldati sardi smobilitati nei Balcani dopo l’armistizio ritornò in Italia ed entrò a far parte delle formazioni partigiane per dare il suo contributo nella lotta contro il nazifascismo. A partire dall’ottobre del 1943, operò nella Divisione Garibaldi Natisone dove ricoprì ruoli via via sempre più importanti diventando uno dei combattenti più noti del Triveneto. Fu dapprima Comandante di Battaglione, venne poi promosso Ispettore di Brigata il 1° luglio 1944, Capo di stato maggiore di Brigata il 7 agosto, Comandante della 158^ Brigata Garibaldi “Antonio Gramsci” il 1° ottobre e, infine, Vice comandante di Divisione dal 12 dicembre fino al termine del conflitto.
All’interno della “Garibaldi” particolarmente forte era la presenza di combattenti sardi, in gran parte militari sbandati:
«Vi comunichiamo – scrive il capo di stato maggiore della Natisone al comando del 9° Korpus nel dicembre del ’44 – che presso la 158.ma brigata si trova un forte gruppo di sardi, cioè nativi di Sardegna. A noi consta che nella brigata Triestina esiste un nucleo di sardi che desiderano passare alla 158.ma brigata, per formare un battaglione sardo. Dato che il comandante della 158.ma brigata, compagno Moro (è Salvatore Bulla), è pure sardo, è ovvio spiegare il significato politico che avrebbe la formazione di un battaglione sardo».
La Divisione Garibaldi “Natisone” risulterà essere la più grande formazione partigiana del Corpo Volontari della Libertà (la struttura militare di coordinamento della Resistenza italiana riconosciuta dagli Alleati e dai governi del CLN), arrivando a contare 5.500 partigiani e 1.500 caduti.
Il 1° maggio 1945, Salvatore Bulla fu tra i protagonisti dell’ultima battaglia avvenuta alle porte di Udine contro i tedeschi in ritirata.
Per il suo ruolo nella lotta di Liberazione, nel dopoguerra fu decorato di Medaglia di bronzo al valor militare con la seguente motivazione: “Volontario nelle formazioni partigiane, si distingueva in numerose audaci azioni per capacità e coraggio. Nominato comandante di brigata partigiana, riusciva a trasfondere nei dipendenti ardore e qualità combattiva che procuravano al nemico serie perdite e la distruzione di vitali impianti di comunicazione. Nel corso di una rischiosa azione per l’occupazione di un grosso centro cittadino, accortosi che alcune formazioni della sua brigata ripiegavano in seguito a contrattacco nemico, si portava ove maggiore era il pericolo e, galvanizzati i commilitoni con la sua indomita audacia, riusciva a respingere il nemico e a riconquistare le posizioni.- Zona Grions – Godia – Beivars (Veneto), 1 maggio 1945“.
– Cuomo Luigi nacque a Cagliari il 25 gennaio 1926. Nome di battaglia “Kiev”.
La sua storia viene raccontata da Tonino Mulas nel libro “Antifascisti e partigiani sardi”.
Emigrato in continente alla ricerca di un lavoro, Luigi Cuomo si trasferì a Trieste dove venne impiegato nello “iutificio triestino” situato vicino ai cantieri navali. Nonostante non fosse un militare o un resistente, il 9 settembre 1943 subito dopo l’attacco al presidio della Marina italiana, incappò in un rastrellamento tedesco mentre si trovava sul luogo di lavoro e venne tratto in arresto. Caricato su un treno con destinazione Austria, riuscì a scappare con altri venti uomini e, nella zona del Collio, entrò in contatto con un gruppo di partigiani sloveni; questo incontro sarà particolarmente importante per Cuomo che in quel momento deciderà di dare il suo contributo alla Resistenza. Il 15 settembre 1943 entrò ufficialmente a far parte della Divisione Garibaldi “Natisone” ricoprendo nel tempo il ruolo di Comandante di compagnia, Commissario di compagnia e Capo servizio informatori brigata fino al termine della guerra. Durante il conflitto si rese protagonista di numerose azioni contro i reparti tedeschi, organizzò la propaganda attraverso la diffusione di volantini e pubblicò un giornale intitolato “Il Mitra”. Dopo un periodo passato in Jugoslavia, ritornò in Italia nel febbraio del 1945 e combattè fino alla Liberazione del Paese, contribuendo alla cacciata dei nazifascisti dalla cittadina di Gradisca di Isonzo (GO).
– Lai Luigi nacque a Segariu (SU) il 5 novembre 1918.
Soldato dell’esercito, dopo l’armistizio decise di dare il suo contributo alla Resistenza entrando a far parte della Brigata Furlan – zona Treviso. Durante l’attività partigiana ricoprì il ruolo di Comandante di nucleo dal maggio del 1944 e quello di Commissario di distaccamento dall’ottobre dello stesso anno e fino alla fine della guerra.
Il nome di Luigi è ricordato per una vicenda molto particolare, riscoperta dal giornalista e scrittore Fausto Pajar, nel libro “Soffitte del Nordest. Persone, cose e fatti che parlano al cuore”.
Per diverso tempo Luigi, dopo essere scampato a un rastrellamento dei tedeschi a danno dei partigiani, si nascose in mezzo ai campi attraversati dal fiume Dosson, vicino ai paesi di Quinto e Zero Branco, nel trevigiano, sopravvivendo grazie a ciò che la natura gli donava. Qui incontrò la famiglia Feletti che, conosciuta la sua storia, lo accolse in casa facendogli indossare i vestiti di un figlio partito in guerra, Alfredo. Passarono i mesi, Luigi continuò la sua attività nella formazione partigiana fino alla Liberazione del Paese e nel frattempo, a guerra conclusa, tornarono a casa anche i fratelli Feletti, Beppino e Alfredo. Si seppe poi che Alfredo, di stanza in Sardegna, in un momento di difficoltà, venne a sua volta aiutato da una famiglia di Segariu… la famiglia Lai! Racconterà Alfredo che la signora Carolina, mamma di Luigi, mossa a compassione per quel povero soldato affamato, gli donò del pane casareccio appena sfornato e del vino, e che quel giorno era stato per lui il più bel giorno di tutta la guerra. Da allora le due famiglie rimasero in contatto, si incontrarono di persona e pochi anni fa, nel 2022, si è avuto un gemellaggio culturale tra Segariu e Quinto di Treviso.
– Lutzu Severino nacque a Sedilo (OR) il 24 novembre 1923. Nome di battaglia “Tosca”.
Maresciallo della Guardia di Finanza in servizio nell’ex Jugoslavia, dopo l’armistizio di Cassibile raggiunse Pordenone ed entrò nella Resistenza. A partire dal luglio 1944, combattè nella brigata Garibaldi “Ippolito Nievo” che operava nei territori della Val Meduna e Val Cellina, coprendo il ruolo di Comandante di nucleo, Commissario di compagnia, Commissario di battaglione e infine Commissario di brigata. Severino Lutzu partecipò alle principali azioni di guerra avvenute nel pordenonese, in particolare si ricorda il suo coinvolgimento nell’episodio di Ponte di Corva.
La mattina del 25 marzo 1945, dodici partigiani fra i quali lo stesso Lutzu, ebbero il compito di far saltare il ponte di Corva per impedire un’operazione militare già programmata dai nazifascisti. Poco prima dell’azione, si recarono presso una casa colonica della zona per chiedere qualcosa da mangiare ma lì, ormai da qualche giorno, si trovava Enrico Cattaneo, vicecommissario politico del Fascio Repubblicano di Pordenone, che sentiti i discorsi tra i partigiani e il proprietario, temendo un’azione nei suoi confronti, scappò dalla casa uscendo dalla finestra. Dato l’allarme, una ventina di tedeschi appoggiati dai fascisti circondarono la casa e ingaggiarono uno scontro a fuoco con i partigiani. Lutzu riuscì a fuggire, ma 3 compagni, Bakhtiar Rana, Maurico Fioretti e Giovanni Truccolo vennero catturati, torturati e appesi a degli alberi dove vennero finiti da raffiche di mitra. I loro corpi vennero lasciati sui platani per tre giorni. Un mese dopo, Lutzu partecipò alla liberazione di Pordenone.
– Podda Luigi nacque a Orgosolo (NU) l’11 febbraio 1924. Nome di battaglia “Corvo”.
Giovane pastore proveniente da una povera famiglia, chiamato alle armi e assegnato all’aviazione nel Secondo conflitto mondiale, si trovava a Perugia aggregato al 151° Reggimento fanteria quando venne annunciato l’armistizio. Consegnate le armi pesanti per ordine dei comandanti, lui assieme a una sessantina di ragazzi sardi di leva, dopo essere fuggiti dalla caserma circondata dai tedeschi, raggiunsero Civitavecchia per cercare di imbarcarsi su qualche mezzo di fortuna e raggiungere la Sardegna. Arrivati nella città laziale, capirono che ciò non era possibile, i tedeschi avevano già occupato i porti. Grazie alla collaborazione di alcuni ferrovieri, i soldati sbandati riuscirono a saltare su un treno merci con destinazione Viterbo. Arrivati al confine tra le due provincie, i giovani scesero dal treno e, per poter sfuggire ai controlli, si divisero in 3 piccoli gruppi, nascondendosi nei boschi e nelle grotte della zona e vivendo all’addiaccio.
Il 26 ottobre, una pattuglia di tedeschi e fascisti sorpresero sul treno un ragazzo con alcune armi da guerra. Interrogato, disse loro che doveva consegnarle a un gruppo di sardi sbandati. In realtà il ragazzo non sapeva dove si trovassero, anche perchè non avevano una dimora stabile, quindi portò i tedeschi a Bieda (VT) e una volta in paese riuscì a scappare. Per rappresaglia i nazifascisti spararono sui civili uccidendo 13 persone. Tra questi morirono il ragazzo, che era stato ripreso, e un soldato sbandato di Orgosolo, il diciannovenne Andrea Sale.
Da quel momento fascisti e tedeschi diedero la caccia al gruppo.
Nel frattempo a Roma si era costituito il Battaglione Angioy composto esclusivamente da sardi e comandato dal gerarca fascista Barracu (che verrà poi ucciso il 25 aprile 1945 ed esposto a Piazzale Loreto insieme a Mussolini). Il Battaglione andava in giro per tutto il Lazio alla ricerca di sardi sbandati, arrivati in massa nella regione con l’obiettivo di raggiungere l’isola. La pressione dei tedeschi e dei fascisti si faceva via via sempre più forte, così Luigi Podda e i suoi compagni decisero di spostarsi a Roma, per cercare contatti con altri sardi del luogo e attraversare il fronte per raggiungere il territorio già liberato. Nella Capitale, scoperti dagli uomini del colonnello Fronteddu di Dorgali, finirono con l’essere inquadrati nel battaglione dei repubblichini e per l’addestramento furono trasferiti prima a Cremona e poi a Villa Opicina, vicino Trieste. Il 17 gennaio 1944, in una trattoria da lui frequentata, Luigi Podda fece l’incontro con i partigiani jugoslavi e, trascinando con sè una cinquantina di compagni sardi, abbandonò la caserma di Villa Opicina e si aggregò al Battaglione triestino d’assalto al comando di Remo Lagomarsino e del vice-comandante Riccardo Giacuzzo, operante oltre l’Isonzo.
La vicenda verrà ripresa da due ex comandanti partigiani, Giacuzzo e Scotti, nel libro “Quelli della montagna”. I due partigiani descrivono le imprese del Battaglione d’assalto “Trieste” facente parte dell’omonima brigata partigiana “Garibaldi”. In un capitolo intitolato “Arrivano i Sardi”, Giacuzzo e Scotti così raccontano:
«Proprio in quel periodo, verso la fine del gennaio 1944, il Battaglione ha la gradita sorpresa di essere raggiunto da 54 militari italiani, giovani mobilitati dalla Repubblica di Salò, i quali affermano di aver disertato le file del loro Battaglione dislocato a Opicina presso Trieste e chiedono di combattere contro i tedeschi e i fascisti. Sono tutti della Sardegna, completamente equipaggiati (ben vestiti, con armi e munizioni). Con essi il Battaglione triestino raddoppia i propri effettivi […]. A capeggiare la diserzione dei Sardi dalle formazioni “repubblichine” è un giovane pastore di Orgosolo, Luigi Podda […]. Tutti si dimostrarono in seguito ottimi combattenti, convalidando la scelta fatta con il sacrificio della propria vita».
Tra le tante azioni svolte dal battaglione “triestino” contro nazisti, repubblichini italiani e fascisti jugoslavi, si ricorda un’impresa talmente importante da essere stata ripresa persino da Radio Londra e Radio Mosca: la distruzione, nell’aeroporto di Ronchi dei Legionari occupato dai nazisti, di almeno 8 aerei tedeschi carichi di bombe. Nell’azione, a cui partecipò lo stesso Podda, persero la vita due partigiani sardi, Salvatore Piras nato a Dorgali e Carmine Congiargiu di Orgosolo.
Arrestato da reparti tedeschi il 2 marzo 1945 sulla strada Gorizia – Aidussina, Podda venne imprigionato insieme ad altri due sardi nel carcere di Gorizia e destinato alla fucilazione il mattino del 27 aprile nel castello della città, per rappresaglia contro le azioni di guerra compiute ai danni dei tedeschi. Liberato poco prima dell’esecuzione da una squadra di partigiani appartenenti ai GAP friuliani, iniziò per lui un estenuante viaggio che lo condurrà a Orgosolo nel maggio del 1945: “Al mio paese non trovai nulla di cambiato, salvo che al posto del podestà c’era il sindaco. La popolazione continuava a vivere nuda, scalza e nella miseria più nera. Non c’erano posti di lavoro e quasi tutti i reduci, militari o partigiani o ex partigiani che fossero, rimanevano disoccupati. Chi non era morto di fame durante la guerra o la prigionia, doveva morire di fame a casa sua“, scriverà Podda.
Di questa esperienza Podda parlò nel suo libro intitolato “Dall’ergastolo” (premiato col “Viareggio opera prima”), pubblicato nel 1976 poco dopo aver ottenuto la grazia dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Podda fu accusato da un confidente dei carabinieri di coinvolgimento nella strage di “Sa Ferula” accaduta nel 1950, e costata la vita a tre carabinieri. Proclamatosi sempre innocente e nonostante fosse stato scagionato da molti testimoni, fu condannato all’ergastolo sulla base di semplici elementi indiziari. La grazia ottenuta non gli concesse il diritto di far ritorno nella sua amata Sardegna per altri 10 anni, di cui tre con soggiorno obbligato da trascorrere a Porto Azzurro.
Morì a Orgosolo il 15 febbraio 2009.
– Prunas Mario nacque a Cagliari il 12 gennaio 1919. Nome di battaglia “Serra”.
Ufficiale di complemento dell’esercito, decise di dare il suo contributo alla lotta contro i nazifascisti entrando a far parte del “Comando Zona montagna Verona” poco tempo dopo l’armistizio, precisamente il 1° ottobre del 1943. Nella formazione partigiana si distinse ben presto per la sua audacia e arrivò a ricoprire i ruoli di Capo di Stato maggiore di brigata e di Vice Comandante di zona fino al termine del conflitto.
Tra le azioni guidate da Mario Prunas si ricorda quella del 23 agosto 1944 quando, con 34 uomini del Battaglione “Ubaldo” equipaggiati di armi leggere e pesanti, partendo da Raga Alta di Magrè a Schio, cercò di raggiungere l’Altopiano dei 7 Comuni. A causa di una delazione, i nazifascisti individuarono il gruppo in movimento, accerchiarono i partigiani e, con l’aggiunta di nuovi reparti, allargarono il rastrellamento alle colline circostanti. All’alba del 26 agosto, i partigiani guidati da Prunas, nonostante fossero circondati dal nemico dispiegato in tutta la zona, impegnarono seriamente gli avversari grazie alla posizione favorevole. Durante il tentativo di sganciamento, tre partigiani coprirono con le loro armi il ripiegamento dei compagni, ma due di loro, Francesco Urbani e Nello Tarquini, furono catturati, seviziati e uccisi dai russo-ucraini, e un terzo, Guerrino Barbieri, nonostante fosse ferito, riuscì a raggiungere il gruppo. Terminato lo scontro, iniziò la rappresaglia. Vennero saccheggiati e dati alle fiamme diversi edifici, catturati uomini che lavoravano nei campi e presunti favoreggiatori; alcuni di questi vennero successivamente liberati, diciotto furono deportati in Germania.
Per il suo contributo alla Resistenza, nel dopoguerra Prunas fu decorato di Medaglia di bronzo al valor militare con la seguente motivazione: “Ufficiale di complemento dell’Esercito, entrava come semplice gregario nelle file partigiane, distinguendosi subito come capo per le sue spiccate doti di iniziativa e di coraggio dimostrate in numerose azioni. Al comando di un battaglione partigiano in movimento, veniva attaccato da forze nemiche di gran lunga superiori. Con mirabile sangue freddo e con non comune preparazione tattica, riusciva a disimpegnarsi salvando tutto il materiale mentre infliggeva al nemico gravi perdite. Nominato successivamente capo di Stato Maggiore di una grande formazione operante in montagna, risolveva brillantemente vitali problemi organizzativi, logistici e operativi. Nelle giornate gloriose dell’insurrezione finale riprendeva di nuovo l’arma come umile gregario per partecipare arditamente ai combattimenti risolutivi. – Zona di Verona-Altipiano di Asiago, luglio 1944-aprile 1945“.
– Puxeddu Luigi nacque a Villasor (SU) il 19 marzo 1905.
Il suo antifascismo maturò quando era ancora un giovane studente diciasettenne, come testimoniano i vari articoli scritti in difesa delle libertà democratiche e contro la violenza squadrista che vennero pubblicati sul “Solco” e “L’unione sarda”. La tesi con cui si laureò in Giurisprudenza all’Università di Cagliari, intitolata “Le basi dello Stato”, destò molte proteste nell’ambiente fascista per il modo in cui Puxeddu difendeva lo Stato di diritto e la tradizione liberale. Entrato in magistratura nel 1927, esercitò prima in Sardegna e poi in Veneto a partire dal 1932. In questi anni cercò di limitare la sua opposizione al fascismo, che si palesò nuovamente quando prese le difese del fratello Rinaldo arrestato a Cagliari.
Luigi si trovava a Rovigo quando venne firmato l’armistizio di Cassibile. Senza perdere tempo, riunì attorno a sè gli esponenti del Partito Liberale e insieme ai rappresentanti del Partito d’Azione diede vita al primo CLN della provincia di Rovigo, divenendone presidente. Tra le sue azioni più importanti, aver contribuito, alla vigilia del 25 aprile, alla liberazione di 130 prigionieri politici rinchiusi nel carcere della città e destinati alla fucilazione. Terminato il conflitto, il magistrato confermò il suo impegno politico ricoprendo la carica di Prefetto per l’amministrazione della Provincia di Rovigo, della quale cercherà di difendere l’autonomia nei confronti del governatore alleato. Dimessosi da magistrato, si dedicò alla professione di avvocato e per molti anni fu dirigente del PLI.
Il fratello Rinaldo, anch’egli magistrato e partigiano, morirà in Toscana durante i combattimenti per la liberazione di Pistoia.
– Raga Antonio nacque a Bosa (OR) il 1° gennaio 1907. Nome di battaglia “Lapin”.
Maresciallo dei Carabinieri, fu uno degli eroici protagonisti della Resistenza bellunese, le cui gesta sono ancor oggi ricordate dalla popolazione. Di stanza a Belluno dal 1939, dopo l’armistizio raccolse intorno a sè oltre 40 carabinieri formando il Battaglione X, di cui fu comandante. I militari, approfittando della loro posizione, favorirono i rifornimenti delle forze partigiane operanti nella zona e crearono un’ampia rete di informatori. Il maresciallo si occupò personalmente del reperimento di armi per i partigiani, guidando lui stesso i camion carichi di fucili, munizioni e ordigni. A proteggerlo la sua divisa, la conoscenza del tedesco e i rapporti intrattenuti con le guardie naziste che lo affiancavano nel carcere di Baldenich.
Ed è proprio in questi locali che il 28 aprile 1945 Antonio Raga partecipò attivamente a una delle clamorose azioni ideate da Mariano Mandolesi “Carlo”, comandante della Brigata Pisacane, Divisione Nino Nannetti. Il maresciallo sardo in quel periodo era comandante della guarnigione di 15 carabinieri (tutti affiliati al Battaglione X) in servizio alle carceri di Baldenich, dove erano imprigionati un alto numero di detenuti politici costantemente sorvegliati dai tedeschi. Grazie alla collaborazione tra Mandolesi e Raga, giocando d’astuzia si riuscì a beffare per la seconda volta i tedeschi (il carcere era stato assaltato anche il 15 giugno 1944), liberando i detenuti imprigionati. In quelle stesse celle furono poi rinchiuse le guardie naziste alle quali il maresciallo sardo, prima di fuggire, non negò un ultimo atto di umanità distribuendo acqua e generi alimentari.
In una lettera inviata al Comando di Zona Piave il 25 maggio 1945, Antonio Raga scriverà:
“Non essendo possibile per ora fare una relazione esatta su tutte le atrocità commesse dai nazifascisti nei venti mesi di occupazione, si dà a grandi linee un cenno generico, in attesa che l’“Ufficio Storico del Comando di Zona” comunichi, appena possibile, la storia documentata del martirologio della popolazione di questa provincia, che ha avuto oltre tremila arrestati politici ed oltre duemila deportati […]. Appena si delineò il movimento partigiano, furono subito iniziati gli arresti e le persecuzioni. Gli interrogatori venivano fatti con metodi barbari, a furia di bastonate, di torture di ogni genere, persino usando apparecchi elettrici e culminavano più di una volta con la morte fra gli spasimi degli arrestati […]. I rastrellamenti e le deportazioni in massa si seguirono a breve distanza, si accentuarono le rappresaglie. Un atto di sabotaggio, anche fatto dai soldati tedeschi stessi, un soldato che spariva, anche se disertore, erano sufficienti per giustificare le rapine, le uccisioni, gli incendi e tutti i vandalismi più deprecabili. Si uccideva, senza riguardo al sesso ed all’età, si bruciavano case con l’intero mobilio, si bruciavano case con tutto il bestiame, e qualche volta, come avvenne a Lamon, nella casa in fiamme si buttò la padrona di casa […]. Spesso però, non era neppure necessario un qualsiasi motivo perché si uccidesse e si torturasse: l’11 settembre 1944 ad esempio il giovane ALBRIZZI Luigi fu Luigi, da Belluno, verso le ore 20 veniva ucciso in questa città mentre transitava in via Carrera recandosi a casa, sorbendo tranquillamente un gelato […]. Quante altre impiccagioni, senza alcuna ragione, quante fucilazioni, quante case, quanti paesi bruciati o fatti saltare con la dinamite!“.
– Ruiu Bernardino nacque a Orune il 3 marzo 1919. Nome di battaglia “Mignolo”.
Soldato, ritornato dalla campagna del Nord Africa, dopo l’armistizio dell’8 settembre si spostò a Roma dove, guidato da padre Luciano Maria Usai, cercò di reclutare nel nascente Battaglione volontari di Sardegna “Giovanni Maria Angioy” i soldati sbandati che avevano raggiunto Civitavecchia per tentare di imbarcarsi nell’isola.
Ben presto Ruiu capì di stare dalla parte sbagliata e, dopo aver abbandonato l’addestramento della formazione repubblichina a Villa Opicina, decise di dare il suo contributo alla lotta di Liberazione entrando nella Divisione Garibaldi, Battaglione triestino.
Nella formazione partigiana ricoprì il ruolo di Comandante di squadra (Sergente maggiore) dall’aprile del 1944 e fino al giugno dello stesso anno, e quello di Ispettore di Battaglione (Sottotenente) dal luglio del 1944 e fino al termine della guerra. Noto per la sua mira infallibile e per il suo coraggio, Ruiu divenne in poco tempo uno degli uomini più carismatici della Garibaldi. Tra le numerose azioni di guerra da lui compiute, si ricorda quella avvenuta all’aeroporto di Ronchi dei Legionari quando, appena giunto nella Divisione, assieme ad altri cinque sardi si propose volontario per un’operazione rischiosissima che ebbe come risultato la distruzione di otto aerei tedeschi, fatto che all’epoca ebbe una grande risonanza.
Nel marzo del 1945 fu quasi catturato dai nazisti. Di ritorno da una missione, Ruiu insieme a Mario Farina, partigiano di Olbia, furono fermati da una pattuglia di tedeschi che, sospettata la loro appartenenza al movimento partigiano, iniziò la perquisizione alla ricerca di prove. Consapevole che la loro sorte era ormai segnata, in un momento di distrazione dei militari, Ruiu afferrò la sua rivoltella nascosta nello stivale e, sparando verso il nemico, si diede alla fuga insieme al compagno. Nello scontro a fuoco rimasero a terra quattro vittime: Mario Farina, colpito a morte dai nazisti, e tre nazisti, colpiti a morte da Bernardino Ruiu.
Il partigiano di Orune morì pochi mesi dopo la fine del conflitto. Fu la Questura di Udine a comunicare il decesso alla famiglia, avvenuto il 2 agosto 1945 a causa di un tragico quanto beffardo incidente. Ritornato alla caserma dopo aver terminato il suo servizio, si recò nella sua stanza dove venne trovato esanime dai suoi commilitoni, ferito a morte nella regione addominale da un colpo d’arma da fuoco partito dalla sua pistola.
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– Caduti nel Triveneto cognomi S – Z
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Fonti principali:
– Schede personali: Commissione regionale triveneta per il riconoscimento delle qualifiche di partigiano;
– Archivio tedesco: Arolsen Archives;
– “L’antifascismo in Sardegna”, a cura di Brigaglia, Manconi, Mattone e Melis;
– “Antifascisti e partigiani sardi”, di Tonino Mulas;
– “Quelli della Montagna: storia del Battaglione Triestino d’Assalto”, di Giacuzzo e Scotti;
– “Itinerario di lotta, cronaca della Brigata d’assalto Garibaldi – Trieste” di Riccardo Giacuzzo e Mario Abram;
– “Verona la guerra e la ricostruzione”, a cura di Maristella Vecchiato;
– “La partecipazione del Mezzogiorno alla Liberazione d’Italia (1943-1945)”, a cura di Enzo Fimiani;
– Segariu e Quinto di Treviso, dal sito: “Il Sardington Post“;
– Marola di Chiuppano 26-08-1944, dal sito: “Stragi naziste e fasciste in Italia“;
– Pedemontana e Altopiano dei 7 Comuni (Vicenza), Operazione Hannover. Dalla battaglia di Marola alla battaglia di Granezza;
– 8 settembre 1943 – 9 maggio 1945: Cronistorico e vittime della Guerra di Liberazione nel Vicentino. Secondo volume giugno – settembre 1944: dall’estate partigiana ai grandi rastrellamenti, a cura di Pierluigi Damiano Dossi Busoi;
– Biografie partigiani, dal sito: “ANPI“;
– Aprile 1945: il comandante Carlo ripete la beffaalle carceri di Baldenich, dal sito: “Belluno Press“;
– L’occupazione tedesca del Bellunese. Fra dissuasione terroristica e strategia della violenza, 1943-1945, di Stefano Pelizzari;
– Ponte di Corva di Pordenone, dal sito: “Stragi naziste e fasciste in Italia“;
– Severino Lutzu, dal sito: “Il Messaggero Veneto“;
– Jubannedda Piccu la madre del partigiano, dal sito: “L’Ortobene“.